Chiesa del Nome di Dio – Pesaro

Via Petrucci 61121 Pesaro
(non officiata)

Un gioiello d’arte è considerata la chiesa del Nome di Dio, sita in Via Petrucci a Pesaro. L’edificio era di proprietà della Confraternita omonima, la cui primaria attività era quella di dare onorata sepoltura ai morti in grave indigenza. L’edificio attuale risale al ‘500, ma nel 1763 su disegno di Gian Andrea Lazzarini (1710-1801) fu rifatta la facciata in pietra d’Istria e restaurata nel 1912. Lo spettacolo della chiesa si trova al suo interno tutto decorato da tele del pittore pesarese Gian Giacomo Pandolfi (1567-post 1636), confratello della Compagnia, che iniziò l’opera nel 1617, ricoprendo di tele dipinte tutto l’edificio dal soffitto alle pareti, inserite nelle fastose strutture scenografiche dagli architetti Giovanni Cortese e Niccolò Sabbatini che operavano a servizio di Francesco Maria II della Rovere. Al centro del soffitto campeggia il Trionfo del Nome di Dio, circondato dalla Corte Ducale e dalla Corte Pontificia, verso l’altar maggiore l’Immacolata Concezione e dalla parte opposta l’Inferno. Alle pareti, distinte in tre fasce, sono raffigurate Storie del Vecchio e del Nuovo Testamento: nella fascia superiore monocroma sono dipinte le Opere di Misericordia, espresse tramite la rappresentazione di angioletti, bambini e bambine che suonano e cantano o sono in processione; la fascia centrale propone un itinerario di salvezza (accuratamente sottolineato da scritte didascaliche tratte dal Vecchio Testamento e dagli Atti degli Apostoli) attraverso l’intervento divino: si tratta di dieci grandi quadri che riproducono le profezie delle Sibille, episodi alludenti alla liberazione, i miracoli di S. Pietro e di S. Paolo. Sulla parete d’entrata, di fianco all’organo di Antonio Pace da Pesaro del 1631, si ammira a sinistra il presunto autoritratto del Pandolfi. Nella parte inferiore che funge da spalliera per i sedili sottostanti sono raffigurati i Padri della Chiesa, otto Dottori della Chiesa e i quattro Evangelisti. Sull’altar maggiore stava una Circoncisione di Federico Barocci (passata al Louvre al tempo della spoliazione napoleonica e sostituita da una copia di Carlo Paolucci, 1738-1803). Sulla sinistra si ammira l’altare del Crocifisso e alla destra la tela del mantovano Teodoro Ghisi raffigurante la Madonna e Santi. La Sagrestia custodisce sull’unico altare il Monogramma del Nome di Dio dipinto dal Pandolfi, le immagini della Immacolata Concezione e del Bambino Gesù, sempre del Pandolfi, mentre altre tre tele sono da attribuire a Giuseppe Oddi e a Giovanni Venanzi, discepoli rispettivamente di Carlo Maratta e di Simone Cantarini. Chi desidera avere una illustrazione ampia e chiara sulla chiesa, consulti il volume di Grazia Calegari La chiesa del Nome di Dio a Pesaro, 2009, Stibu, Urbania (pagine 152).

(a cura del prof. Dante Simoncelli)

Il soffitto

I dipinti del soffitto vanno guardati ponendosi al centro della chiesa, in corrispondenza del Trionfo del Nome di Dio (fig. 4), per leggere l’immagine centrale, l’Immacolata e la Resurrezione col viso rivolto all’altare; girandosi poi lateralmente per le due Gerarchie e in direzione della porta d’ingresso per l’Inferno e lo Scheletro. La disposizione dei soggetti tende ad indicare un itinerario di salvezza, dall’ingresso al presbiterio, dalla morte alla Resurrezione finale, passando per la gloria centrale del Nome di Dio, (con gli arcangeli Gabriele, Michele e Raffaele posati su di una nuvola, e miriadi concentriche di angeli intorno), e la rassicurante presenza laterale degli angeli e dei profeti. Il Pandolfi unisce alla precisione dottrinaria e culturale alcune interpretazioni figurative che escono dalle regole codificate dalla cultura controriformistica e tardomanieristica alla quale apparteneva, evidenti, invece, nella rigida impostazione del Trionfo del Nome di Dio. Si veda l’inquietante realismo di alcuni particolari dell’Inferno, la grottesca popolare mostruosità dei diavoli, o si noti la fresca libertà naturale con la quale sono impaginati, ai quattro angoli del soffitto, scorci di architetture e voli di rondini (alcuni dei quali pesantemente restaurati) (fig. 5). E si osservino, tra le figure inginocchiate delle Gerarchie temporali, i ritratti di Francesco Maria II della Rovere (col collare del Toson d’oro) e dell’unico figlio Federico Ubaldo, lo sfortunato erede qui all’incirca tredicenne.

Le pareti

La copertura delle pareti laterali fu eseguita dal Pandolfi dal 1634 al 1636, con la collaborazione di Nicola Sabbatini (1574-1654), famoso scenografo e scenotecnico, già al servizio dei Della Rovere e autore tra l’altro, dal 1637, del vecchio Teatro del Sole, in seguito completamente ricostruito e divenuto Teatro Rossini. L’intero apparato si suddivide in tre fasce di dipinti. La fascia superiore monocroma, che scorre continua sotto il soffitto, rappresenta: a sinistra, (dall’ingresso all’altare), angioletti, bambini e bambine compiono opere di misericordia; a destra, (dall’ingresso all’altare), angioletti, bambini e bambine compiono una processione, suonano e cantano. La fascia centrale comprende dieci grandi quadri, più le due sottili strisce dipinte ai lati dell’organo (il più antico della città, opera di Antonio Paci da Pesaro, eseguito nel 1631), nelle quali appare, a destra di chi guarda, un suonatore di flauto, e a sinistra il presunto autoritratto del Pandolfi, che sembra affacciarsi per osservare la sua opera (fig. 6). Dalla sinistra dell’ingresso all’altare, le tele rappresentano: la Sibilla Cumana; il Passaggio del mar Rosso; il Trionfo di Giuseppe Ebreo; un miracolo di S. Pietro; l’Annuncio a Maria.

Dalla destra dell’ingresso all’altare: la Sibilla Eritrea; Davide e Golia; il Trasporto dell’arca; un miracolo di S. Paolo; l’Annuncio a Giuseppe. Nella fascia inferiore, dipinta a monocromo, che fungeva da «spalliera» per i sedili sottostanti, sono raffigurati otto dottori della chiesa e quattro Evangelisti. Da sinistra: S. Bernardo da Chiaravalle, S. Tommaso d’Aquino, S. Ambrogio vescovo, S. Gregorio papa, e gli evangelisti Luca e Giovanni. Da destra: S. Bernardino da Siena (predicatore del Nome di Dio), S. Bonaventura, S. Girolamo, S. Agostino e gli evangelisti Marco e Matteo. La fascia centrale ripropone un itinerario di salvezza (accuratamente sottolineato da scritte didascaliche tratte dal Vecchio Testamento e dagli Atti degli Apostoli), che passa dalle profezie delle Sibille, attraverso i  quattro episodi biblici alludenti alla liberazione, fino ai miracoli (S. Pietro e lo storpio, S. Paolo e l’ossessa), al duplice annuncio finale della venuta di Cristo e alla Circoncisione all’altare maggiore. Anche la progressione della fascia inferiore sembra indicare una completezza dogmatica, dalla sfilata dei dottori della Chiesa alla presenza degli Evangelisti nel presbiterio.

Il linguaggio del Pandolfi

C’è realismo, gusto del colore e della vita. Nel festoso, vociante Trionfo di Giuseppe appare uno scorcio della piazza cittadina, col vecchio palazzo comunale a sinistra e la strada verso porta Fanestra, attuale via S. Francesco; negli Annunci a Giuseppe e Maria (fig. 7)si ricrea un’affettuosa penombra domestica con particolari, arredi, trucioli, di una «moderna» presa della realtà, appresa forse dalla grande lezione romana del Caravaggio, diffusa già da anni anche nelle Marche da alcuni artisti, come G. Francesco Guerrieri da Fossombrone. Ma c’è, negli impasti coloristici così densi e caricati, nei gigantismi dilatati degli altri episodi, nelle strutture grandeggianti, nei cieli svirgolati, una profonda tensione, un bisogno di enfasi, un senso visionario della realtà (fig. 8). E’ un’inquietudine personale e forse significativa anche di anni difficili per il ducato di Pesaro-Urbino, da poco incamerato allo Stato Pontificio (1631), estintasi la dinastia dei Della Rovere, con prospettive politico-economiche incerte. E’ una religiosità attratta dalla vita e contaminata dalla presenza della morte, nella quale non trionfa totalmente né la realtà delle cose, né la forza dell’immaginazione barocca. Vi predomina invece una faticosa, solitaria ricerca di equilibrio linguistico ed espressivo, tra pietismo controriformistico e libertà, tra cultura provinciale ed aperture verso la rappresentazione diretta della realtà o l’esaltazione visionaria, che sono due linee portanti del linguaggio figurativo seicentesco.

La sagrestia

A sinistra del presbiterio, si accede alla suggestiva sagrestia, circondata dai sedili per le riunioni dei Confratelli (fig. 9), cui fanno da spalliera tele con angeli che recano simboli relativi alla Passione di Cristo, eseguiti da Giuseppe Oddi (Pesaro ?-1728). Nel registro superiore, sono di vari autori seicenteschi i 19 riquadri raffiguranti la Passione, la Morte e la Resurrezione di Cristo, mentre appartengono alla mano del Pandolfi, oltre alla decorazione delle porte, i dipinti posti sopra i sedili centrali, con le immagini della Immacolata Concezione e, dirimpetto, quella del Bambino Gesù (che interrompono le storie di Cristo), e la tela dell’altare, con angeli che sorreggono il monogramma del Nome di Dio. Sul soffitto sono incassati vari dipinti, di diversi autori seicenteschi e settecenteschi tra cui Giovanni Venanzi, che rappresentano Santi e Profeti, e fanno corona al tondo centrale col Bambino Gesù.

Testo e immagini: Ufficio Beni Culturali/Arcidiocesi di Pesaro