FESTA DEL PORTO

FESTA DEL PORTO

Si è celebrata, domenica 4 luglio, la tradizionale Festa del Porto, ancora una volta ridotta nelle forme, ma non nelle ragioni profonde per cui è nata: venerare la Madonna della Scala, “madre di semplicità, umiltà e mitezza”; invocare la sua speciale benedizione sulla nostra Nazione, sulle autorità, in particolare sugli uomini e le donne della Marina Militare; pregare per i caduti in mare e chiedere la protezione del Signore su tutto il popolo, affinché trovi, nelle onde spesso tempestose della vita, il porto sicuro a cui è destinato.

Quest’anno c’era un motivo in più per fare festa: lo “storico” parroco del Porto, don Valentino Giovannelli, il 22 luglio compirà settant’anni di sacerdozio, di cui quarantadue vissuti proprio in questa parrocchia. “Ho iniziato il mio servizio – ha detto – prima del Concilio e possedevo la mentalità tipica di quel tempo. Con il Concilio si è aperta una stagione nuova per la Chiesa e anch’io ho fatto la mia parte per sintonizzare con quella novità il mio cammino. Non so se ci sono riuscito, però una cosa è certa: quei quarantadue anni li porto nel cuore e li rivivrei tutti da capo”.

L’Arcivescovo Piero Coccia, che da anni garantisce fedelmente la sua presenza a questa celebrazione – come ha ricordato don Marco De Franceschi, omaggiandolo per questo con un dono offerto dall’intera comunità – ha rivolto, a nome di tutta la diocesi, un augurio affettuoso a don Valentino, del quale ha ricordato “le numerose opere realizzate (tra cui la stessa chiesa nuova) e soprattutto la guida di pastore accogliente, saggio, equilibrato”. Ha ringraziato anche il parroco don Matteo “per la bella testimonianza di vita presbiterale data insieme a don Marco e al diacono Giorgio”, tutti i collaboratori e i ministranti.

Passando poi a commentare le letture del giorno, mons. Coccia si è soffermato sulla missione che è stata affidata a ogni cristiano di essere Chiesa “profetica”, chiamata cioè a parlare e ad agire “in nome” di Gesù.

Che cosa implica questo? Implica la coscienza di essere “mandati” da un Altro per compiere il progetto di un Altro. Proprio come Ezechiele a cui il Signore disse: “Io ti mando ai figli di Israele”.

Senza questo contenuto di mistero e di trascendenza di cui la Chiesa è segno, la comunità ecclesiale scadrebbe a realtà puramente umana, di natura sociologica o politica e diverrebbe oggetto di valutazioni anch’esse puramente umane o addirittura personalistiche: simpatia o antipatia, affinità o diversità ideologica, coerenza o incoerenza morale.

Queste “misure” valutative sono tutte forme di presunzione e di superbia. L’uomo veramente umile e povero è colui che, anche se ha di fronte “una razza di ribelli, testardi e dal cuore indurito”, non si arrende “ascoltino o non ascoltino” e continua a parlare in nome di Dio, perché non fa affidamento sulle proprie capacità, sulle proprie virtù o teorie. Anzi, come San Paolo, si compiace di essere debole e perdente, perché “è nella debolezza che si manifesta pienamente la potenza di Cristo”.

E’il medesimo mistero che scandalizzava i contemporanei di Gesù: “Non è costui il falegname, il figlio di Maria? E da dove gli viene questa sapienza?”. E’ il mistero della Chiesa che continua a scandalizzare: una realtà umana e piena di limiti, il cui valore però non si esaurisce in essa, ma la trascende infinitamente.

 

Pesaro 5 luglio 2021                                                                   Paola Campanini